La 
            Maremma oggi è meta turistica e presidio produttivo, ma dobbiamo 
            immaginarla come fosse centocinquant'anni addietro: deserta, malarica 
            nelle zone acquitrinose, verde di macchia e di foresta contro il fondo 
            azzurro spento dei monti. I castelli bucano il mar di frappa come 
            isole. Si stende dal padule di Grosseto e di Castiglione, chiusi a 
            mezzogiorno dai poggi dell'Alberese che si dilungano verso l'Argentario, 
            fino a Montalto, dove inizia la Maremma laziale, che declivia meno 
            aspra. L'entroterra incupisce e vi regnano i boschi di lecci e di 
            sughere, nel groviglio della macchia il terreno si spezza in dirupi 
            e caverne, forre e scheggioni. E' nella macchia che stanno, nascosti 
            e silenziosi, i veri abitanti della Maremma, gente che non parla, 
            che guardan le capre o le bufale, i butteri dai cosciali di capra, 
            che van bene per star tra i rovi. In estate salgon sui monti, e dopo 
            riscendono nella macchia dove ritrovano le capanne di falasco lasciate 
            l'anno prima. Sono boscaioli che fan carbonella, butteri e pastori. 
            Sono pochi. D'ottobre arrivano le prime greggi, e i cinghiali spaventati 
            dai pastori abbandonano i piani per rifugiarsi nei forteti; d'ottobre 
            calano gli uccelli di passo e arrivano i cacciatori per il frullo 
            dei beccaccini, e la macchia si anima, non solo di tordi, beccacce, 
            fiasconi, germani, arzavole, pavoncelle, pivieri, ma anche di braccate, 
            del fracasso dei cinghiali giù per le forre, rincorsi dai cani. 
            I tordi eran tanti che si portavan via a canestrate, e il marchese 
            Niccolini quando andava a beccaccini era capace di farne anche più 
            di cento in un giorno.  
             
            "Là 
            in Maremma studi, nascita, condizione, relazioni e denaro contano 
            poco o nulla: il carabiniere è una rara apparizione, lo speziale 
            non esiste, la società è lontana. L'uomo è solo 
            e la Maremma, bella e fatale come la sfinge, gli propone l'eterno 
            problema della vita. L'uomo vero non è spento, un fiero istinto 
            si risveglia in quel fiero isolamento, e nasce prepotente l'ambizione 
            di bastare a se stessi. Onde non senza un senso d'orgoglio ci si può 
            dire: ho sfidato i paduli insidiosi e le foreste interminate, le notti 
            di ghiaccio e la canicola micidiale - sempre in sella per greppi dirupati, 
            per fiumane crescenti, schivando, affrontando le torve mandrie dei 
            tori, accorando il cignale fra i cani sventrati, fidando al mio schioppo 
            la mia sussistenza e la mia difesa: ho vissuto come un maremmano!" 
            Sono parole di Eugenio Cecconi ma le potremmo attribuire a qualunque 
            vero cacciatore, o anche ai briganti maremmani, che vivevan 
            di caccia, nascosti nella macchia.  
             
            La caccia non è solo uno sport, è molto di più. 
            E' una grande potenza, la caccia. E' ebbrezza di lotta, di gara, di 
            astuzia, il bisogno del rischio e dell'agguato, la guerra per la guerra, 
            del sangue per il sangue, del pane guadagnato al pericolo della vita 
            più che al sudore della vanga. E il suono della caccia: 
            le grida dei braccaioli, la canea battente, l'ululato dei corni, lo 
            scoppiare delle salve, le grida dell'attacco, le galoppate... è 
            la caccia! E la vera caccia, è quella al cinghiale, che assurge 
            a scontro epico. Per vincerla sul cinghiale il cacciatore non esita 
            davanti a nulla, rischia se stesso e i suoi cani, spesso sventrati, 
            si butta giù dalle forre, annaspa nei paglieti con l'acqua 
            fino alla pancia, si fa avanti a forza tra le marruche o nelle giuncaie. 
            "In quei luoghi meravigliosi [la Maremma] quasi tutti avevamo 
            rischiato la pelle, e quella vita avventurosa si rifletteva nei racconti": 
            sono parole di un cacciatore d'eccezione, il marchese Eugenio Niccolini, 
            che così inizia il suo libro di ricordi Giornate di caccia, 
            e spesso ricorda come fosse "dolce e sereno" quel tempo. 
             
            Dolce e sereno perché il cacciatore intrattiene un intenso 
            rapporto sentimentale con la natura. Il cacciatore ama la natura selvaggia 
            di questi luoghi, ama starvi in mezzo da solo tutta una giornata, 
            e tornare a casa pensando alla quiete. Sono ancora le parole del marchese 
            Niccolini: "Col sole, era calata anche la leggera brezza di ponente 
            e i canneti dorati inghirlandavano lo specchio calmissimo del lago. 
            La Torre di Capalbio, rosea per gli ultimi raggi di sole, spiccava 
            sul nero forteto di Monteti. La quiete serena di tutte le cose era 
            anche nell'animo mio ed io contento benedicevo la vita." 
             
            I cani sono i protagonisti della caccia, e Cecconi amava ritrarli 
            tutti, in tutte le loro espressioni, "dal pointer che per mancanza 
            di educazione ha fallito la sua carriera, al can da pastore cui il 
            bosco ha insegnato il mestiere; dal can da lepre esile e freddoloso, 
            al pesante mastino che trafela; dal bastardo terrier al bastardo pomero..." 
            E di tutti egli disegnava e coloriva i ritratti, studiandone l'anatomia, 
            i movimenti, gli sbalzi, le abitudini, ritraendone gli sguardi umani 
            e parlanti, quegli occhi pieni di tanti muti discorsi che ad un pittore 
            arguto, Telemaco Signorini, facevan dire esserci gente nei 
            cani del Cecconi. 
             
            Eugenio Cecconi spesso era ospite dei grandi signori, proprietari 
            di latifondi in Toscana e nella Maremma toscana, e appassionati cacciatori, 
            come il marchese Eugenio Niccolini (Eugenio Giuseppe Emilio Antonio 
            Maria Niccolini, XI marchese di Camugliano e Ponsacco: Firenze, 22 
            agosto 1853 - Firenze, 23 febbraio 1939). Di antica stirpe, Niccolini 
            possiede vasti palazzi a Firenze, proprietà terriere nel pisano, 
            e la splendida tenuta di Camugliano, acquisita dai Medici da un avo 
            nel 1637. Laureato in legge e uomo 
            di cultura, è in relazione con personaggi della letteratura 
            dell'epoca: Giosuè Carducci, Gabriele D'Annunzio, Renato Fucini, 
            Ferdinando Paolieri, Luigi 
            Ugolini, e con gli artisti macchiaioli. Fin 
            da giovinetto si appassiona alla caccia e ne fa una scienza. E' più 
            volte ospite a caccia di Re Vittorio Emanuele II, di Re Umberto I 
            e di Vittorio Emanuele III a S. Rossore, a Castelporziano ed anche 
            sui monti a stambecchi e camosci, ma il luogo che più ama è 
            la Maremma, e la caccia preferita è quella al cinghiale. Nel 
            1913 viene eletto Senatore del Regno e nel 1915 dà alle stampe 
            un libro straordinario: Giornate di caccia, che non 
            è solo il racconto delle sue gesta venatorie del tempo passato, 
            anzi, è soprattutto un inconscio racconto di sé, dove 
            emerge la sua natura buona, di un uomo che accetta con umiltà 
            il suo rango superiore, capace di vivere con semplicità accanto 
            al guardia, al bracchiere, al contadino, un uomo che si commuove ricordando 
            il suo cane preferito, Guerrino, il solo che potesse accucciarsi davanti 
            al camino la notte, mentre gli altri stavano nei canili, e che perse 
            durante una battuta al cinghiale. 
             
            Il suo primo incontro con Eugenio Cecconi è da lui stesso raccontato. 
            L'amico Gigi Malaspina e il fido guardia Gosto lo aspettano a Vignale 
            per la tesa di primavera; sul treno, nel vagone dove Niccolini sta 
            con un amico, a Fauglia sale uno sulla trentina, con un pastrano rossiccio 
            col bavero e la manopola di volpe, in spalla una sacca, un fucile 
            e una cassetta da pittore. L'amico del marchese lo presenta: è 
            Eugenio Cecconi. "Io e lui ci inchinammo con ostentata cortesia 
            ma guardandoci in cagnesco perché eravamo tutti e due un po' 
            scontrosi e per di più vedevamo nel nuovo arrivato un intruso 
            che avrebbe turbato l'intimità della comitiva. Cosicchè 
            quando potei capire che egli non si sarebbe trattenuto a Vignale che 
            quattro o cinque giorni, quanti gliene occorrevano per un bozzetto 
            che egli voleva fare nella sterpaia, io mi sentii riavere. [...] Eugenio 
            invece di cinque giorni ci stette più di un mese e fra noi 
            si strinse quell'amicizia che, sempre più intima, non poteva 
            essere interrotta che dalla morte." E ancora: "A pranzo 
            ci raccontavamo gli avvenimenti venatori della giornata, poi la conversazione 
            si allargava, come sarà sempre la conversazione spontanea, 
            e divertente quando un uomo come il Cecconi, senza accorgersene, ne 
            rialza il livello." La chiusa: "Le feste di Pasqua erano 
            vicine: Eugenio Cecconi aveva quasi finito il suo quadro e si decise 
            a partire. Dopo tanti anni quando l'altro giorno rividi quel quadro, 
            rividi anche tutto quel tempo e mi sentii battere il cuore come un 
            giovanetto davanti alla sua innamorata." 
             
          
          
             
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                 La 
                  villa del marchese Niccolini a Camugliano che ospitava Eugenio 
                  Cecconi 
                  (courtesy www.camugliano.com) 
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            Eugenio 
              Niccolini, Giornate di caccia, Editoriale Olimpia, 
              1943 
              In copertina un disegno di Eugenio Cecconi, a dx una delle tante 
              illustrazioni interne tratte dai dipinti di Eugenio Cecconi 
              (courtesy Marchese Filippo Niccolini) 
               
             
               
             
           
          Un 
            altro gran signore che soggiornava spesso in Maremma per la caccia 
            era il principe Tommaso Corsini (Tommaso Bartolomeo Pier Francesco 
            Melchiorre Maria Corsini, VI Principe di Sismano e di Duca di Casigliano: 
            Firenze, 28 febbraio 1835 - Manciano, 22 maggio 1919), deputato 
            del Regno d'Italia dal 1865 al 1882, senatore a vita. 
            Nel Cinquecento i nobili Corsini furono gli artefici della fortuna 
            della famiglia, con la costruzione dell'enorme patrimonio immobiliare 
            e fondiario. La famiglia diede anche un papa, Lorenzo Corsini (1652-1740) 
            col nome di Clemente XII, un mecenate che si ricorda soprattutto come 
            fondatore dei Musei Capitolini e committente della Fontana di Trevi, 
            delle nuove facciate di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria 
            Maggiore, della costruzione del Palazzo della Consulta. Tommaso Corsini 
            rafforza la fortuna familiare (fonda La Fondiaria 
            Assicurazioni) e con un atto di generosità cede allo Stato 
            italiano il Palazzo della Lungara a Roma donando le sue collezioni 
            di dipinti, stampe e libri. 
             
            Il complesso della 
            Marsiliana, nel cuore della Maremma toscana, sorse 
            come castello in epoca medievale, dominio della famiglia Aldobrandeschi, 
            passò sotto il controllo dei Senesi nel Trecento e venne conquistato 
            verso la metà del Cinquecento dai Medici che lo inglobarono 
            nel Granducato di Toscana, dopo una brevissima parentesi sotto lo 
            Stato dei Presidi. Nel 1759 il castello (con diecimila ettari di terra) 
            fu dato in concessione al principe Corsini (la concessione durava 
            cento anni, dopo i quali i Corsini riscattarono il feudo);  
            il Granducato dava tali 
            concessioni di territori di confine ai grandi casati dotati di risorse 
            e che volessero assumersi l'onere di riqualificare un territorio malsano, 
            acquitrinoso, aspro e infestato da briganti; il principe Corsini, 
            lungimirante, ne fece un centro agricolo innovativo, autosufficiente 
            (nel borgo v'era tutto, il forno, il pollaio, la tessitura, il fabbro 
            ferraio, il maniscalco, etc., tutto ciò che serviva alla vita 
            dei lavoranti), risanandolo e coltivandolo soprattutto a grano. Naturalmente 
            rimaneva una buona parte del feudo ancora a boschi e macchie (il forteto), 
            dove il principe amava cacciare e dove ancor oggi si organizzano le 
            battute di caccia al cinghiale. Tommaso Corsini, uomo di cultura, 
            era anche archeologo sulle proprie terre, e portò alla luce 
            la famosa fibula Corsini, tesoro di gioielleria etrusca, conservata 
            al Museo Archeologico di Firenze. 
             
             
          
          Sin: 
            Il castello della Marsiliana com'era prima della ristrutturazione 
            del 1895. Dx: il castello della Marsiliana oggi. 
            (courtesy Principi 
            Corsini) 
             
           
             
          Il 
            principe Tommaso Corsini amava molto soggiornare al castello della 
            Marsiliana, che era la sua residenza quando si recava in Maremma, 
            e qui invitava gli amici per le "cacciate" in 
            compagnia, tra i quali il marchese Piero Azzolino, 
            ma anche cacciatori maremmani come lo "zio Pacone" o "Giocondo 
            il bestiaio". Uno di questi amici era Eugenio Cecconi, come risulta 
            anche da un'annotazione nel suo taccuino (scribbling diary). 
            Pagina del diario dell'anno 1881, settimana dal 17 al 22 gennaio: 
            arrivo del "pittore Eugenio Cecconi, persona molto simpatica", 
            gestione della tenuta, battute di caccia, considerazioni personali. 
             
             
             
          
          Eugenio 
            Cecconi, "Radunata di caccia" 
             
           
             
          Eugenio 
            Cecconi era spesso ospite anche a Capalbio. Palazzo Collacchioni, 
            di epoca rinascimentale, si trova addossato sul lato corto alla rocca 
            aldobrandesca (i.e. la torre medievale che svetta in cima al colle 
            di Capalbio). Si sviluppa su tre livelli e ve n'è un quarto 
            che mena ai sottotetti; dal portale di ingresso si accede al cortile 
            con il pozzo per la raccolta dell'acqua nella cisterna sottostante. 
            Attualmente di proprietà del Comune, è adibito a museo, 
            e tra mobili e abiti d'epoca conserva anche un fortepiano Conrad Graf 
            che fu suonato da Giacomo Puccini, anch'egli appassionato cacciatore, 
            che veniva ospitato a palazzo Collacchioni un mezzo secolo dopo. La 
            "strana e affascinante Maremma", "paese selvaggio, 
            primitivo, lontano, lontano dal mondo, dove riposa veramente lo spirito 
            e si rinforza il corpo [
]" sono le parole di Giacomo Puccini 
            che era affascinato dalla Maremma, e spesso vi era per grandiose battute 
            di caccia, ospite di Marco e Bianca Collacchioni. Il palazzo di Capalbio 
            venne aggiunto alle proprietà di famiglia da Giambattista Collacchioni 
            (1814-1895), senatore de Regno, che aveva incrementato la potenza 
            e le proprietà di famiglia, originaria di Sansepolcro - dove 
            tuttora vi è il bellissimo palazzo Collacchioni - guadagnandosi 
            anche l'appellativo di nobile di Borgo San Sepolcro; i suoi 
            vasti possedimenti spaziavano dall'aretino al grossetano. Come per 
            la proprietà dei principi Corsini alla Marsiliana, anche la 
            zona del capalbiese venne data in concessione dal Granducato a chi 
            ne potesse favorire lo sviluppo. All'epoca di Eugenio Cecconi il palazzo 
            del senatore Collacchioni (che il marchese Niccolini chiama familiarmente 
            Tista) veniva utilizzato come base per le battute di caccia.  
             
             
          
             
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                        Capalbio: Palazzo Collacchioni. 
                         
                        Sin: una delle sale al piano nobile 
                        Sopra: il fortepiano suonato da Giacomo Puccini 
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                | 
                   Eugenio 
                    Cecconi, "Partenza da Capalbio", olio su tela, 70x130 
                    (collezione privata) 
                 | 
               
             
            
             
            Per tutto l'Ottocento le campagne e le strade furono teatro delle 
            azioni malavitose dei briganti. Tra questi ogni tanto si trovava qualcuno 
            che cattivo non era, costretto al brigantaggio dalla fame e dalla 
            miseria, e nell'immaginario popolare assumeva un'aura di romantico 
            eroismo poiché derubava i ricchi e aiutava i poveri, moderno 
            Robin Hood. In Romagna v'era Stefano Pelloni, immortalato dal Pascoli, 
            e in Maremma, tra i tanti, spiccava Domenico Tiburzi. 
            I briganti di strada spesso si radunavano in bande di tre, quattro 
            individui, che immancabilmente si ammazzavano tra di loro. Rubavano 
            ai viaggiatori e spesso anche ai contadini o ai pastori che all'epoca 
            non stavano affatto meglio di loro, vessati dalla malaria e dalla 
            cronica mancanza di cibo. La Maremma era terra aspra e dura, l'unica 
            cosa che forniva in abbondanza era la selvaggina, ed è il motivo 
            per cui tanti signori vi soggiornavano per le battute di caccia, che 
            per loro era un divertimento e non una necessità. I briganti, 
            avvezzi a usar di schioppo e di fucile, erano buoni cacciatori, ma 
            il loro maggior sostentamento lo trovavano nel taglieggiamento dei 
            nobili, grandi proprietari terrieri, che volentieri pagavano qualche 
            tributo pur di aver salvaguardati i loro beni. 
             
            Nel 1893 il 
            brigantaggio interessava il forese in molte regioni, e il 
            governo Giolitti ordinò ai vari Prefetti di intervenire. Fu 
            così ordinato di rastrellare la zona del viterbese e del grossetano 
            per smantellare la rete dei briganti maremmani. "E' intollerabile 
            che due o tre briganti si siano imposti ad un circondario intero e 
            che siano aiutati da un gran numero di conniventi. [
] Il numero 
            di manutengoli è grandissimo e codesti manutengoli non appartengono 
            tutti alle ultime classi sociali." E infatti i "manutengoli", 
            ossia coloro che in qualche modo proteggevano i banditi, non erano 
            soltanto i contadini, omertosi o per paura o per riconoscenza, ma 
            anche i signori, che volentieri pagavano la "tassa sul brigantaggio" 
            perché in cambio non avevano scioperi e i fattori stavano tranquilli, 
            che nessuno avrebbe incendiato i fienili, rubato la legna o pascolato 
            abusivamente, e anche la delinquenza spicciola spariva. Al Procuratore 
            del Re di Viterbo scapperà detto: "da quando vi era Tiburzi, 
            la delinquenza era sparita dal mio circondario". Al grande processo 
            del 1893 vennero fermate oltre 150 persone per favoreggiamento, tra 
            i quali non solo butteri e contadini, ma anche fattori, coloni, piccoli 
            proprietari terrieri e perfino parroci; si dice anche qualche nobile, 
            ma non è accertato. I condannati furono una cinquantina, tra 
            i quali i fratelli di Tiburzi, i nipoti e lo stesso figlio Nicola. 
             
             
          Domenico 
            Tiburzi (Cellere (VT), 28 maggio 1836 - Capalbio (GR), 24 ottobre 
            1896) è un bifolco, dapprima fa il pastore e il buttero, altro 
            non v'era da fare, e vivacchia di espedienti. Ha moglie e due figli, 
            ma vive in una casa affollata dove comanda un padre avaro; anche quel 
            poco che guadagna la moglie va al capofamiglia, e la poverina, ultima 
            arrivata, deve fare i lavori più pesanti. Poi la moglie muore 
            di quelle febbri alternanti e rapide ch'era la malaria e nessuno sapeva 
            cos'era.  
            Un giorno il guardia del marchese Guglielmi lo multa di ben 20 lire 
            per averlo còlto mentre spigolava, e questo bastò a 
            farlo ammazzare dal Tiburzi incollerito. Condannato a 18 anni e incarcerato 
            nei bagni penali di Corneto (Tarquinia), insieme con Domenico Biagini, 
            che sarà suo fido compare, riesce a fuggire e si dà 
            alla macchia, iniziando la carriera di bandito (siamo nel 1874, e 
            da questo momento è ergastolo, con una taglia di diecimila 
            lire sulla testa). Estorsioni, sequestri, rapine e quant'altro allungano 
            la sua fedina penale, ma lo spirito che lo anima è singolare. 
            Egli è credente, e sente alto il senso di giustizia, o meglio, 
            l'ingiustizia di vedere chi ha molto e chi nulla; egli si propone 
            di dividere il bene che non è stato sudato da nessuno con i 
            più poveri, in una sorta di giustizia distributiva, cioè 
            di prendere a chi ha troppo per darlo a chi ha troppo poco: si autoproclama 
            il livellatore. Egli non ruba per arricchire, ma difendersi sta 
            bene e vendicarsi sta anche meglio. E la bilancia funzionava: il denaro 
            era travasato dal fattore alla povera vedova, dal proprietario al 
            buttero, dal nobile cittadino all'erbaiola. Il 
            Tiburzi si guadagna in tal modo una sorta di affetto da parte di molti, 
            e viene rispettato da tutti: per ben ventidue anni nessuno lo tradirà. 
            Sono molti gli aneddoti che lo riguardano. Un giorno passando per 
            una straducola si imbatte in una famigliola che piangeva sconsolata. 
            "Che avete fatto", chiede, e loro: "Abbiamo incontrato 
            il Tiburzi che ci ha rubato tutto, soldi e roba". "Dov'è 
            andato", fa lui. A un vago accenno verso la boscaglia, il Tiburzi 
            prende e va, e siccome la boscaglia lui la conosce benissimo, poco 
            dopo trova il bandito e lo ammazza. Poi torna dai poveracci derubati, 
            restituisce loro la roba, i soldi, e per soprammercato altri soldi 
            che il bandito aveva in tasca per conto suo. "Tenete tutto" 
            fa ai poveracci attoniti, "Il Tiburzi sono io, e nessuno si deve 
            permettere di far brigantaggio a nome mio".  
             
            Il Tiburzi forma una specie di banda con altri come lui, prima di 
            tutti Domenico Biagini e in seguito Luciano Fioravanti suo nipote, 
            un ex-cuoco non troppo intelligente, e col tempo ingigantisce la sua 
            fama; sono molte le uccisioni sia dei delatori, che se ne trovavano 
            sempre, sia dei compari, perché il Tiburzi li puniva quando 
            li coglieva ad uccidere un poveraccio innocente. Lui cerca di controllarli 
            perché il Biagini è impetuoso, il Fioravanti sanguinario, 
            il Basili feroce. Oltre 
            alla taglia, si erano tutti guadagnati anche la condanna a morte. 
            Di grilletto facile, al Tiburzi bastava 
            poco per far fuori qualcuno, bastava che rubassero una pecora o un 
            maiale a qualcuno a lui vicino che subito cercava il colpevole e lo 
            ammazzava. Ma mai si permise di uccidere un carabiniere o un nobile. 
            Nel 1889 il fido compare Biagini viene ucciso dai carabinieri in un 
            agguato, mentre Tiburzi ci guadagna una palla in un ginocchio, che 
            lo metterà in seria difficoltà. Tiburzi aspetta un anno, 
            poi allo scadere dell'anniversario si presenta alla tenuta Guglielmi 
            dov'era il delatore che aveva favorito l'agguato. Ci va col Fioravanti, 
            al quale lascia il compito di far fuori la spia: anche qui, per il 
            suo speciale senso di giustizia.  
             
            Il Tiburzi poi, nella sua lunga peregrinazione nel forteto, incontrava 
            i signori che cacciavano, e il marchese Eugenio Niccolini nel suo 
            libro conferma di aver conosciuto il Tiburzi e narra diversi episodi 
            con i briganti, e ci descrive persino il Fioravanti: tarchiato, con 
            la barba rossa e la faccia volgare. Una volta ne vennero due al casino 
            di caccia a chieder asilo per la notte dicendosi boscaioli, e il marchese 
            ne riconobbe uno anni dopo che passava tra due gendarmi; un'altra 
            volta, un giorno ch'era solo, venne fermato da due briganti che gli 
            chiesero cortesemente il denaro: poiché lui non ne aveva con 
            sé, disse loro di aspettare, ché sarebbe andato a prenderlo, 
            e difatti i due aspettarono, e il marchese tornò con il denaro. 
            Molto semplicemente.  
             
            E accanto alla fama venne la leggenda. Tiburzi è descritto 
            come un bell'uomo, ben portante; non vi sono sue fotografie tranne 
            una che gli fu presa dopo morto, ma non dubitiamo delle dicerie sul 
            suo conto come rubacuori. In casa di tal Leonardo Stolfi, boscaiolo, 
            v'erano tre figliole e di tutte e tre si diceva fossero sue amanti; 
            si diceva che a Roma - dove pare che il Tiburzi andasse spesso - ve 
            n'era un'altra con una figlia; e che le donne maremmane fossero orgogliose 
            di concedersi. Si parlava del Tiburzi come di uno che volesse emulare 
            i signori, e che tutto ben vestito si recasse persino a teatro, quando 
            era a Roma; si favoleggiva di viaggi a Parigi, quando in Maremma non 
            lo si vedeva per un pezzo. E quando c'era, molto spendeva. Dove si 
            fermava a mangiare dai contadini, questi venivano lautamente pagati, 
            se mandava a far compere, non lesinava. E sarà proprio questo 
            a tradirlo. 
             
            Dunque il brigante stava nascosto in questa casa dove abitava tal 
            Nazareno Franci con due figlie, l'una stava col Tiburzi e l'altra 
            col Fioravanti. Tiburzi, sessantenne, è molto malandato e il 
            ginocchio non gli permette neanche di fare una giornata nella macchia 
            senza che Fioravanti - che ha vent'anni di meno - non lo debba portare 
            a spalla. Si era dato al bere. Al Franci Tiburzi dava i soldi per 
            comprare da mangiare ed altro ma questi era un poveraccio, sicché 
            a Capalbio, dove andava a far spesa, si domandavano come potesse comprar 
            tante cose, e persino i sigari (ma costui non fumava
) e da questi 
            indizi pensarono a casa sua ci fosse il Tiburzi, e qualcuno fece la 
            spia ai Carabinieri - dopo ventidue anni di silenzio. Quella sera 
            tra il 23 ed il 24 di ottobre pioveva, era notte fonda ed era buio, 
            i Carabinieri si avvicinarono alla casa, dov'era ancora acceso un 
            fioco lumicino, ma da fuori sufficiente a veder chi v'era dentro, 
            e fecero irruzione. Il Fioravanti fu lesto a scappare, ma il Tiburzi, 
            che oltre ad essere menomato era anche ubriaco, venne ferito a una 
            gamba, ed egli, esclamando: "non mi prenderete vivo", estrasse 
            la pistola e si sparò alla testa.  
            Meno romantica la fine del Fioravanti, che, al contrario del Tiburzi, 
            era un banditaccio qualunque dotato solo di cattiveria. Un giorno 
            fece irruzione in casa di un contadino, si servì da mangiare, 
            poi andandosene via rubò quello che trovò, ma il contadino, 
            stanco dei soprusi, prese a sua volta lo schioppo e gli sparò 
            alla schiena. Nessuno in Maremma rimpianse il Fioravanti, mentre ancor 
            oggi il Tiburzi è considerato poco meno di un eroe. Poiché 
            si era sparato il parroco di Capalbio non lo voleva seppellire in 
            terra consacrata, ma le proteste popolari furono tali che si arrivò 
            al compromesso di seppellirlo metà dentro e metà fuori 
            il camposanto, sulla linea di confine. Come lapide ebbe un solo cartellaccio 
            in legno, in seguito apposto su una colonna; oggi la colonna è 
            al centro del camposanto a causa dell'espansione del cimitero stesso, 
            ma la tomba è vuota: la pietà popolare ha fatto sì 
            che il corpo venisse traslato al suo paese natale, Cellere. 
             
             
              
            
          © 
             Maria 
            Enrica Carbognin per www.letteraturadimenticata.it, febbraio 2019 
             
             
         
       | 
       
         
           
              
             
            Eugenio 
            Cecconi,  
            "Aspettando 
            la zuppa" 
             
              
             
            Eugenio 
            Cecconi,  
            "Cani" 
             
              
             
            Telemaco Signorini 
            disse: 
            "c'è gente nei cani del Cecconi"  
             
             
              
             
            Eugenio 
            Cecconi,  
            "Scena di 
            caccia" 
             
              
            Eugenio 
            Niccolini, 
            Giornate di caccia, 
            Istituto Micrografico Italiano,  
            1915 
            Non si tratta dei racconti di caccia,  
            bensì di un manuale di caccia, 
            un elenco ragionato di animali da cacciare e dei mezzi per farlo 
            (lacciuoli, panie, trappole, etc.)  
             
            La prima edizione di  
            Giornate di caccia 
            (i racconti) anch'essa datata 1915, 
            è introvabile poiché stampata in un numero esiguo di 
            copie, non pensando il marchese Niccolini di riscuotere tanto successo. 
             
             
            Le edizioni successive datano al  
            1926, 1943, 
            1950, 1976, 1979, 
            1990, 1993 e 2007.  
            
             
            Eugenio Niccolini, 
            Giornate di caccia, 
            ArteVentBook, 2007 
            front cover: 
            "Cacciatore coi cani" 
            disegno a china di Eugenio Cecconi 
             
              
             
            Eugenio Niccolini, 
            Giornate 
            di caccia, 
            ArteVentBook, 2007 
            back cover: 
            "Il ritorno dalla caccia" 
            bozzetto di Eugenio Cecconi 
             
             
              
             
            Castello della Marsiliana: 
            trofeo di caccia 
            (courtesy 
            Principi Corsini) 
             
             
              
             
            Castello 
            della della Marsiliana: 
            scorcio della corte interna 
            (courtesy 
            Principi Corsini) 
             
             
              
             
            Partenza dalla Marsiliana 
            (courtesy www.principecorsini.com) 
             
             
              
             
            Castello della della Marsiliana, Museo: 
            una pagina dello scribbling diary 
            del principe Tommaso Corsini  
            (gennaio 1881) dove si annuncia 
            l'arrivo del pittore 
            Eugenio Cecconi  
            per una battuta di caccia. 
            (courtesy Principi Corsini) 
             
             
              
             
          
             
              |  
                 Capalbio 
                  è 
                  situata in cima alla collina e ancor oggi è circondata 
                  da boschi e macchia mediterranea 
                   
               | 
             
           
           
              
             
            Capalbio: esterno di Palazzo Collacchioni e la "Porta del vento" 
             
              
             
          
             
              |  
                 Capalbio: 
                  Palazzo Collacchioni. 
                   
                  Veduta da una finestra del secondo piano. Si intravede la strada 
                  che porta alla Marsiliana 
               | 
             
           
           
              
             
             
            Capalbio, entroterra: la strada intitolata al Tiburzi. 
            Sullo sfondo Capalbio paese. 
             
             
              
             
            La 
            casa dove morì il Tiburzi.  
            Attualmente è di proprietà 
            di S.G., che racconta: 
            "Un tempo venivano in molti a fotografarla, ora sono almeno  
            trent'anni 
            che non viene più nessuno." 
             
             
              
             
            La tomba del Tiburzi 
            nel cimitero di Capalbio 
             
             
              
             
            La scritta sul tavolaccio, in origine la sola cosa che contrassegnasse 
            il luogo di sepoltura del Tiburzi: 
            la colonna fu apposta in seguito. 
             
             
             
         
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